IL PIÙ CELEBRE SEMIOLOGO ITALIANO E LE SUE ESPERIENZE DI TRADUZIONE/2

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IL PIÙ CELEBRE SEMIOLOGO ITALIANO E LE SUE ESPERIENZE DI TRADUZIONE/2

By Marco Borrelli | Published  04/1/2005 | Italian | Recommendation:RateSecARateSecARateSecARateSecARateSecI
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Author:
Marco Borrelli
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IL PI� CELEBRE SEMIOLOGO ITALIANO E LE SUE ESPERIENZE DI TRADUZIONE/2
Ma la sezione del saggio in cui Eco meglio chiarisce la sua posizione è il decimo capitolo, interamente dedicato a denunciare che “interpretare non è tradurre”. In queste pagine il bolognese prende in esame quello che ancora oggi viene considerato il primo approccio semiotico al concetto di traduzione, cioè quello di Roman Jakobson del 1959 intitolato Linguistic Aspects on Translation.
Come Gorlée e altri anche Eco fa notare la sostanziale incompletezza della categoria di trasmutazione in Jakobson; questi vi vedeva solo la versione di un testo verbale in un altro sistema semiotico ma non il contrario e neppure la traduzione attraverso sistemi semiotici diversi dalla lingua verbale. Ma il vero problema è, secondo Eco, l’uso improprio che Jakobson fa del termine interpretazione. Egli infatti lo utilizza per definire tutti e tre i tipi di traduzione e Eco solleva un dubbio:

“Se tutti e tre i tipi di traduzione sono delle interpretazioni, non avrà Jakobson voluto dire che i tre tipi di traduzione sono tre tipi di interpretazione, e che quindi la traduzione è una specie del genere interpretazione?”

Il pericolo, secondo Eco, e che si finisca per stabilire una corrispondenza biunivoca tra interpretazione e traduzione o peggio ancora alla loro identificazione. Abbiamo già visto, invece, che per Eco l’idea di interpretazione è molto più ampia di quella di traduzione.
Eco sostiene che Jakobson, pur nella sua posizione strutturalista, fu uno dei primi a scoprire la “fecondità dei concetti peirciani” e dovette subire fortemente il fascino dell’uso che Peirce fa del termine traduzione per spiegare la nozione di interpretazione. Quello che Jakobson sembra, tuttavia, non considerare a sufficienza è che Peirce, secondo Eco, usava spesso “translation in senso figurato” ovvero come sineddoche (una parte per il tutto) per interpretation. Non c’è corrispondenza biunivoca, semmai il genere interpretazione incorpora la traduzione. Si può sostenere a ragione che ogni traduzione sia un’interpretazione, ma non il contrario.
Ma Eco ci ricorda che l’idea che ogni interpretazione sia una traduzione è un’idea molto radicata nella tradizione ermeneutica e usa Gadamer come pietra di paragone. Dal punto di vista ermeneutico:

“ogni processo interpretativo è un tentativo di comprensione della parola altrui, e pertanto si è posto l’accento sulla sostanziale unità di tutti i tentativi di comprensione di quanto detto dall’Altro. In tal senso la traduzione è, come diceva Gadamer, una forma del dialogo ermeneutico.”

Secondo Gadamer da un lato ogni traduzione è sempre un’interpretazione, dall’altro tra interpretazione e traduzione c’è una sostanziale identità strutturale perché entrambe sono attività del compromesso (ovvero della echiana negoziazione). L’unica differenza sembra essere in Gadamer il grado d’intensità. In definitiva, comunque, per Gadamer comprensione e interpretazione sono la stessa cosa, o meglio parte dello stesso processo: la comprensione afferisce alla sfera del linguaggio e alla decifrazione del messaggio, l’interpretazione, l’atto ermeneutico, sopraggiungono dopo la decifrazione. Per Peirce, invece, sostiene Eco, il concetto di interpretazione riguarda tutto:

“l’interpretazione di Peirce è concetto più vasto dell’interpretazione ermeneutica.”

Anche questo è un modo per dire che la traduzione è un’atto interpretativo mentre l’interpretazione non è necessariamente un atto traduttivo.
Nel capoverso successivo finalmente Eco ‘confessa’, come se ce ne fosse bisogno!, il quadro teorico cui fa riferimento. Dapprima presenta la posizione di Steiner per cui la traduzione in senso stretto è solo un caso particolare del rapporto di comunicazione e per questo una teoria della traduzione interlinguistica deve necessariamente elaborare un modello teorico abbastanza ampio da contenere anche la traduzione intersemiotica di Jakobson. Poi afferma che solo una semiotica soggiacente può produrre questo modello , diversamente da Steiner che pensa ad una teoria del linguaggio. Infine, finalmente, dice:

“io parto evidentemente da un’altra teoria del linguaggio, e lo metto in chiaro, sostenendo che la mia scelta è più fedele a quella di Peirce”

Quindi per Eco solo la semiotica può essere il quadro di riferimento concettuale in cui si studi la traduzione, anche quella interlinguistica. E nella fattispecie, Eco elegge la semiotica peirciana come la più adatta a questo scopo.



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